mercoledì 27 novembre 2013

“Palazzo”: la lunga battaglia radicale per la trasparenza delle istituzioni

da Notizie Radicali del 27-11-2013

Conviene partire da una nota dell’“Agenzia Italia”, questa: “Il Senato gli aveva negato l'accesso agli atti sulle dotazioni organiche dei gruppi e degli uffici, ma la commissione contenziosa gli dà ragione e apre l'accesso a documenti fino a ora rimasti sempre segreti. Decisione unica nel suo genere, quella adottata dalla commissione contenziosa di Palazzo Madama, il 19 novembre scorso. La commissione ha accolto il ricorso presentato a ottobre 2012 dal senatore molisano Giuseppe Astore (Misto), a quanto riferito dallo stesso ex parlamentare. Il provvedimento abbatte qualsiasi barriera agli atti interni, che dovranno essere concessi su richiesta del parlamentare purché in carica”. Questione più che mai attuale, a cui, qualche mese fa, Irene Testa ed Alessandro Gerardi hanno dedicato un prezioso volume, Parlamento zona franca (Rubbettino editore). E a Irene Testa “N.R.” ha posto alcune domande:


Irene, il professor Ceccanti sostiene che alla fine della scorsa legislatura s'è fatto tutto il possibile per dare trasparenza alle spese dei gruppi parlamentari.

“In effetti, sull'onda dello scandalo Fiorito, il Senato approvò l'articolo 16-bis del suo Regolamento secondo cui "ciascun Gruppo è tenuto a pubblicare on line, nel proprio sito internet liberamente accessibile, ogni mandato di pagamento, assegno o bonifico bancario, con indicazione della relativa causale, secondo modalità stabilite con delibera del Consiglio di Presidenza". Questo già sta avvenendo, per cui è curioso che i giudici dell'autodichia dicano che d'ora in poi "gli atti interni dei gruppi dovranno essere concessi su richiesta del parlamentare purché in carica". Nel caso esaminato dalla Commissione contenziosa, l'onorevole Astore aveva chiesto una serie di documenti per verificare la situazione nei gruppi, nell'ufficio di presidenza e negli uffici dei Questori: documenti che per lo stesso principio dovrebbero oggi essere pubblici, e che invece si daranno solo ai senatori in carica."

E’ comunque un primo risultato: dopo che Rita Bernardini per anni chiese documenti di spesa alla Camera senza essere esaudita...

“A dire la verità, Rita ebbe comunque l'elenco dei fornitori e degli appalti in corso ai tempi di Fini. Qui si tratta piuttosto di ricostruire - dai documenti in uscita dall'amministrazione- quello che entra nella disponibilità dei Gruppi, per capire come vengono spesi dai Gruppi, visto anche che nemmeno per loro è ammesso il controllo della corte dei conti..."

La vostra battaglia partì la scorsa legislatura per l'anagrafe pubblica degli eletti ed ora si è trasferita alla gestione amministrativa dei palazzi della politica. Non crede che ci sia un limite a tutto ciò?

“Non credo che la trasparenza abbia un limite nell'attività politica. Quanto al sindacato della magistratura sulle amministrazioni degli organi costituzionali, non siamo mai stati dei pasdaran: nel disegno di legge proposto dai Radicali nella scorsa legislatura, e ripreso in questa dal senatore Buemi, sono espressamente citati ambiti di autonomia regolamentare intoccabile, cioè quelli della procedura legislativa. Ma per quei casi in cui le Camere, il Quirinale e la Consulta si atteggiano come una qualsiasi altra pubblica amministrazione - rapporto d'impiego, appalti, eccetera - non vediamo perché debba esservi una legge diversa, o un'assenza di legge, ed un giudice diverso da quello di tutti gli altri cittadini. Tanto più quando, con un'ulteriore estensione interpretativa, si consente al giudice dell'autodichia di pronunciarsi anche su privacy e trasparenza: valori sui quali tutti i cittadini dovrebbero poter dire la loro."

lunedì 25 novembre 2013

Senato: commissione contenziosa, vietato negare atti a eletti

da un lancio dell'Agenzia Agi delle 12.23

(AGI) - Roma, 25 nov. -Il Senato gli aveva negato l'accesso agli atti sulle dotazioni organiche dei gruppi e degli uffici, ma la commissione contenziosa gli da' ragione e apre l'accesso a documenti fino a ora rimasti sempre segreti. Decisione unica nel suo genere, quella adottata dalla commissione contenziosa di Palazzo Madama, il 19 novembre scorso. La commissione ha accolto il ricorso presentato a ottobre 2012 dal senatore molisano Giuseppe Astore (Misto), a quanto riferito dallo stesso ex parlamentare. Il provvedimento abbatte qualsiasi barriera agli atti interni, che dovranno essere concessi su richiesta del parlamentare purche' in carica.  "Tutto e' nato - spiega Astore- dopo una verifica dell'agenzia delle entrate ai contratti dei miei collaboratori, nel corso della precedente legislatura. Ero uno dei pochi che avevano depositato le scritture al Senato. Allora chiesi all'ufficio di presidenza una serie di documenti per verificare la situazione nei gruppi, nell'ufficio di presidenza e negli uffici dei Questori. Dal 2011 ho protocollato cinque sollecitazioni formali, ma non ho mai avuto risposta. Allora - racconta l'ex parlamentare - mi sono rivolto alla commissione contenziosa che, sebbene in ritardo, mi ha dato ragione stabilendo un principio importante: all'eletto non possono essere negati gli atti". Infatti, la Commissione ha dichiarato "improcedibile" il ricorso di Astore per "sopravvenuta carenza di interesse", perche' non piu' in carica, ma nel contempo "in ragione del giudizio di soccombenza virtuale" ha condannato il Senato a pagare mille euro per le spese di giudizio. "Finalmente - aggiunge Astore - si squarcia il velo anche su argomenti tabu'. Da oggi, gli eletti che volessero indagare su chi sono gli assistenti parlamentari e quanto guadagnano, ma anche su qualsiasi materia di competenza di ufficio di Presidenza e Questori, puo' farlo. Mi sembra sia una piccola rivoluzione nell'interesse della democrazia e dei cittadini".

AUTODICHIA: BUEMI, PERCHE' TANTE DIFFERENZE TRA I PUBBLICI DIPENDENTI?

"Non è per un'inerzia incolpevole che il Piano nazionale anticorruzione, approvato l'11 settembre scorso, non si applica alle amministrazioni degli organi costituzionali - ha dichiarato il senatore Enrico Buemi, Capogruppo Psi in commissione Giustizia - come hanno 'scoperto' la senatrice Ricchiuti e gli altri colleghi che hanno firmato la sua interrogazione urgente. La non immediata sottoposizione di questi organi alla legge esterna è fonte di questa, come di molte altre irrazionalità. Grazie alla battaglia radicale della scorsa legislatura, sappiamo che l'autodichìa - su cui la Cassazione stessa ha avanzato pesanti dubbi di costituzionalità - comporta a sua volta la cosiddetta autocrinìa, cioè la deroga alla disciplina di legge valida per tutti i cittadini."
"Con il mio intervento riguardo all'ultimo bilancio interno del Senato - continua il senatore socialista - il 6 novembre scorso, ho chiarito che spetta invece a una classe politica, consapevole del suo ruolo di direzione del Paese, andare alla radice dei mille fenomeni di differenziazione di Camera e Senato dalle regole di funzionamento organizzativo, valide per tutte le pubbliche amministrazioni nazionali."
"La proposta che il Psi ha presentato il 20 novembre - ha commentato il senatore Buemi - è la sola che viene incontro all'esigenza di rimuovere queste zone franche dell'ordinamento. Sottopone, infatti, alla legge ordinaria la disciplina del personale e quella degli appalti di questi organi, rimuovendo i pesanti dubbi che sulla relativa gestione sono comparsi sul "Fatto Quotidiano" di oggi, e che fanno il paio con la denuncia della sottrazione alla disciplina contabile avanzata per i consigli regionali."
"Mi auguro che in quest'esigenza si riconoscano tutti i senatori firmatari

venerdì 22 novembre 2013

Autodichia, la “zona franca” dello Stato nello Stato: ecco dove non entrano i giudici

Il principio giuridico a garanzia dell’indipendenza degli organi costituzionali è stato trasformato in uno strumento di privilegio, dove chi produce le leggi è dispensato dal rispettarle. E nessuno tocca la sottrazione alla legge ordinaria e a qualunque forma di controllo esterno, dalla magistratura alla Corte dei Conti


da il fatto Quotidiano: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/22/dal-parlamento-al-quirinale-nella-zona-franca-vietata-a-finanza-giudici-e-corte-dei-conti/776990/
E’ inutile girarci intorno, in Italia c’è uno Stato nello Stato. E, attenzione, non è San Marino non è il Vaticano. La zona franca dove non entrano guardia di finanza, magistratura ordinaria e contabile e neppure il giudice del lavoro è tutta nel centro di Roma, prolifera nel cuore stesso della nostra bella e vituperata democrazia. I suoi confini triangolano tra le assemblee elettive di Camera e Senato, il Quirinale e gli organi costituzionali. Cos’hanno in comune? Il fatto che incidentalmente, da dentro, s’illuminano spiragli su decisioni, conti e costi che destano improvviso scandalo: lo stipendio stellare del funzionario inamovibile, la nomina discutibile, l’appalto opaco che sfugge al controllo della Corte dei Conti, fino alla gestione dei bilanci interni che è tanto autonoma e inconoscibile nei dettagli da consentire a chi li firma di proclamare grandi risparmi che si rivelano, puntualmente, falsi. La breccia si richiude subito, senza disturbare troppo gli inquilini, fino al prossimo lampo di cronaca. La chiave della sacra porta dello “Stato nello Stato” ha incisa una parola antica e carica di suggestioni: “Autodichia”. E che significa? Neppure chi ne beneficia – onorevoli, funzionari e dipendenti degli alti organi dello Stato – lo sa esattamente. Per lo Zanichelli è la “potestà riconosciuta alle Camere e alla Corte Costituzionale di giudicare, sostituendosi in ciò agli organi della giustizia amministrativa, sulle controversie relative al rapporto di impiego del personale da essi dipendente”.
Ma anche di regolare gli appalti lontano dalle maglie del codice dei contratti pubblici e dai controlli della Corte dei Conti. Nasce dal potere di giudicare ammissibilità e permanenza di un proprio membro anche di fronte alle richieste della giustizia ordinaria: ma mentre questo si ricava in Costituzione (art. 66 anche se tutte le revisioni costituzionali proposte cercano di superarlo), il principio ha dato luogo ad una estensione– mai introdotta espressamente nell’ordinamento – che sottrae alla legge ordinaria perfino le funzioni amministrative, che nulla hanno a che vedere con l’esercizio delle funzioni costituzionali. Gli esperti di diritto hanno spesso dibattuto l’argomento. Chi difendendo a spada tratta un principio nato per una ragione nobile di autonomia e indipendenza della rappresentanza politica dall’ingerenza di altri poteri (in origine quello monarchico, poi giudiziario). Chi perorando possibili contrappesi o denunciando gli effetti deleteri dell’autodichia sulla vita democratica.
I radicali Irene Testa e Alessandro Gerardi ne hanno scritto un libro (“Parlamento zona franca. Le camere e lo scudo dell’autodichia”, edito da Rubbettino) che spiega, tra cronaca politica e analisi giuridica, quanto siamo lontani dalle nobili origini. Persa la ragione storica resta quella politica, intesa come potere dei partiti e dei singoli che ne fanno parte “contro” le regole e le leggi che governano il resto della società. Il giurista Santi Romano dava questa interpretazione dell’autodichia: “Il falso dogma dell’onnipotenza parlamentare, congiunto a quello della divisione dei poteri ha contribuito a fare del Parlamento uno Stato entro lo Stato, un corpo chiuso ed indipendente, cui si è persino negata la qualità di organo statale, facendolo invece un organo di una democrazia giuridicamente immaginaria e un rappresentante, specie per il mezzo della Camera elettiva, della volontà sovrana del popolo, non immedesimata con quella dello Stato, ma concepita in antitesi, talvolta in vera lotta, con questa”.
Correva l’anno 1898. E da allora non è cambiato nulla, anzi. In 67 anni di vita repubblicana l’istituto è stato applicato, esteso e piegato a scopi molto meno “alti”. Da principio di garanzia dell’organo l’autodichia è diventato uno strumento di privilegio per chi ne fa parte: è il dna della Casta, la particella primordiale del privilegio e della rendita di posizione. “Sembra un vezzo, una reminiscenza per storici o un’argomentazione da accademici e giuristi”, spiega Irene Testa “e invece è il cuore stesso del problema Italia, quello che ha consentito e consente al sistema partitocratico di vivere, alimentarsi, e diffondersi corrompendo ogni anfratto della vita pubblica”.
L’autodichia all’italiana condiziona, altera e distorce lo stato di diritto a vantaggio di alcuni e a danno di tutti. Il tema è entrato, in parte, nell’agenda dei 10 saggi chiamati da Napolitano a fornire, tra le altre, embrionali ipotesi di riforma dell’architettura costituzionale. Il loro intervento si è però limitato a proporre una modifica all’articolo 66 nella direzione di “attribuire a un giudice indipendente e imparziale il giudizio sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. L’accordo è stato possibile su quel punto perché “era evidente a tutti che il problema del Parlamento che decide su se stesso si dimostra insolubile”, spiega Stefano Ceccanti (Pd), costituzionalista e membro della Giunta per il Regolamento del Senato. Ma anche questa indicazione potrebbe restare lettera morta. “Tutto dipende da quello che accadrà nei prossimi mesi – spiega – Stiamo aspettando l’ultima lettura della legge di procedura, che dovrebbe avvenire a dicembre e una volta avvenuta si dovrebbe passare alla discussione sui contenuti e a quel punto il governo e le forze politiche dovrebbero presentare il testo”.
Non si sa quando, insomma, ma lo Stato nello Stato sembra disposto a cedere un pezzo della sua autonomia. Si tiene ben stretta però quella che esercita su altri fronti non meno rilevanti che potrebbero tranquillamente essere normati con legge ordinaria: nessuna ipotesi è balenata, ad esempio, relativamente agli aspetti contabili-amministrativi, al potere di organizzare uffici, servizi e nominare dipendenti attraverso insindacabili regolamenti interni. “La complessità su questi nodi è legata al fatto che le vie per limitare l’autodichia senza comprimere l’autonomia dell’organo costituzionale tocca trovarle caso per caso”, spiega Ceccanti. “Ciascuna di quelle prerogative richiede di calibrare due esigenze: quella di individuare forme neutre ed esterne di controllo e quella di garantire l’autonomia dei vari organi senza subordinarli a ulteriori poteri che ne possano limitare l’indipendenza. Sulle spese dei gruppi, ad esempio, abbiamo stabilito nella scorsa legislatura di rendere obbligatoria la pubblicazione online dei rendiconti. Affidarne l’esame alla magistratura contabile avrebbe comportato il rischio di un conflitto tra potere legislativo e giudiziario. Abbiamo optato per una soluzione meno problematica che fa leva sull’effetto di deterrenza dato dalla visibilità esterna”. Intanto, nell’impossibilità di trovare la quadra generale sull’autodichia e le sue degenerazioni, lo Stato nello Stato continua a dettar legge. E a farla valere esclusivamente fuori dal portone dei suoi Palazzi.

Autodichia, lo Stato nello Stato: milioni di spese e nessun controllo

Superstipendi, appalti secretati e diritti violati nelle città-stato. Camera, Senato e Quirinale sono corpi estranei agli organismi di controllo. Perfino il personale baratta i propri diritti col privilegio: dal licenziato perché ha partecipato al gay pride ai mobbizzati, nessuno può rivolgersi al giudice. Tutti a giudizio davanti all’onorevole. Boldrini e Grasso difendono il sistema di privilegio

di | 22 novembre 2013 da Il fatto Quotidiano
 

Quirinale
 
L’autodichia crea nella città-Stato della Repubblica italiana una condizione di autonomia amministrativa e contabile pressoché assoluta. Neppure la Corte dei Conti può metter becco sui bilanci, sulle spese, sulle retribuzioni di chi vive all’ombra degli organi costituzionali. Dove i regolamenti interni e le decisioni degli uffici di presidenza sono legge assoluta. Così, compensi e appalti fanno notizia sporadicamente. Perché se ne parli deve sempre succedere qualcosa, deve aprirsi un “caso”. Nel 2010 Emma Bonino guidò l’opposizione al rifiuto di accesso, opposto da Renato Schifani all’ispettore del lavoro che voleva entrare a palazzo per vedere i contratti di lavoro. “Se non fosse stato per lei – spiega la radicale Irene Testa – neppure si sarebbe saputo, visto che i verbali del Consiglio di Presidenza sono singolarmente lacunosi, come più volte lamentato anche in questa legislatura dalla senatrice questore dei 5 stelle Laura Bottici“.
Ed è appena accaduto, in effetti, con la polemica sul superfunzionario della Camera, Ugo Zampetti. La scorsa settimana c’è stata una bufera intorno al suo mandato che non scade mai. Un ordine del giorno del vicepresidente Luigi di Maio (M5S) ha tentato – senza successo – di reintrodurre un limite al mandato che nell’autodichia, tra un regolamento e l’altro, è diventato a vita. Zampetti è li dal 1999, 16 anni, e oramai sicuro candidato a succedere a se stesso ben oltre l’età pensionabile. Un problema non solo e non tanto per i 600mila euro l’anno di compenso (400 lordi più indennità di funzione) ma perché è il capo assoluto dell’amministrazione della Camera, dove l’autodichia impera.
Nessuno, al di fuori degli stessi parlamentari, può sindacare su come impiega quel miliardo di risorse messe come posta nel bilancio dello Stato per garantirne il funzionamento senza dipendere da altri organi. Il segretario generale di Montecitorio, di conseguenza, è una delle figure più potenti della burocrazia pubblica italiana. Molto meno visibile è la base dell’iceberg, cioè tutti quelli che stanno sotto “Mr 600mila euro”. Quante volte si è parlato del barbiere della Camera che guadagna più di un chirurgo? Ma chi lo decide? Ancora una volta l’ufficio di presidenza, applicando i propri regolamenti interni che – grazie all’autodichia – nella cittadella assumono il valore assoluto di legge e si applicano a “insindacabile giudizio”. Ma non è un dipendente pubblico? Macché, è un dipendente della Camera, o del Senato, o del Quirinale. E questo vuol dire che le regole che valgono per tutti non valgono per lui (e per altre migliaia di dipendenti), nel bene e nel male. Nel bene, per loro, significa stipendi e rivalutazioni decisamente superiori a quelli, per omologhe funzioni, riscontrabili in altre amministrazioni dello Stato. Esempi: un operatore tecnico (centralinista, elettricista e pure il barbiere…) entra con uno stipendio intorno ai 30mila euro, dopo 10 anni arriva a 50mila e a fine carriera anche a 136mila euro l’anno. Le progressioni sono decise a insindacabile giudizio di una commissione interna. Una fotografia che nulla ha a che fare con i lavoratori del pubblico impiego.
In cambio, mal glie ne e incolse, i dipendenti della città Stato (Camera, Senato, Quirinale, Csm, etc.) devono vedersela con l’altra faccia dell’autodichia: l’impossibilità, in caso di controversia, di rivolgersi a un giudice del lavoro. Perché anche per loro la cittadella è inviolabile. “Di fatto barattano diritti per privilegi. Se si volessero rivolgere all’ispettorato del lavoro non lo potrebbero fare”, spiega la Testa. Perché il loro “giudice naturale” non è quello ordinario, ma una commissione contenziosi composta da 3 senatori in carica, un dipendente eletto ed uno scelto dal Presidente (in pratica dal segretario generale) che valuta la fondatezza del ricorso. “Ci sono casi emblematici di dipendenti ingiustamente declassati, uno mobbizzato e uno licenziato perché ha partecipato a un gay pride (nel 2004, il dipendente era Dario Matiello, ndr)”. Qualcuno ha provato a ottenere ragione fuori dal Parlamento, finora senza successo anche per l’opposizione degli uffici di presidenza. Un caso emblematico è quello del dipendente del Senato Piero Lorenzoni che chiedeva di essere giudicato da un vero giudice. Il dipendente si è rivolto alla Cassazione che il 19 ottobre scorso ha ravvisato la fondatezza dei dubbi di costituzionalità dell’autodichia delle Camere, perché esclude una categoria di cittadini dalla tutela giurisdizionale in ragione di un elemento (l’essere dipendenti del Senato) che non giustifica un trattamento differenziato (art. 3). E ancora per violazione dell’art.111 sul giusto processo, visto che si celebra nelle Camere dinanzi ad una delle parti in causa e non davanti ad un giudice terzo ed imparziale. E qui viene il bello. Perché la Cassazione ha rimandato alla Corte Costituzionale e lì Camera e Senato, su indicazione degli uffici di presidenza, si sono subito costituiti contro il dipendente. E poco importa se a capo dei due uffici spiccano esponenti del centro sinistra. “Grasso (Pd) e Boldrini (Sel) – accusa la dirigente radicale Testa – hanno preferito far quadrato sull’autodichia e rivendicare l’extraterritorialità rispetto al giudice ordinario. Dalla seconda e terza carica dello Stato, ci si sarebbe aspettati un atteggiamento diverso e meno corporativo. Evidentemente l’intenzione dei presidenti di Camera e Senato, non è quella di rendere il parlamento un’istituzione trasparente e rispettosa del principio di legalità bensì di mantenere intatti privilegi, immunità e prerogative non rispettosi dei principi Costituzionali”.
Anche gli appalti nell’autodichia degli organi costituzionali sono da sempre una nebulosa impenetrabile e in espansione: l’ultima relazione della Corte dei conti riferisce di una spesa superiore ai 250 milioni di euro da parte delle amministrazioni centrali dello Stato. Su questo versante il principio dell’autonomia e indipendenza si è tradotto in un sempre più massiccio ricorso alla secretazione che consente all’amministrazione di bypassare il codice dei contratti pubblici e procedure a chiamata diretta, limitando così la concorrenza dei contraenti, la pubblicità dei contratti stessi, l’imposizione dell’Iva sugli importi, la rendicontazione finale e il controllo contabile successivo.
Importi, preventivi, preliminari e pagamenti restano dunque inconoscibili. Il tutto anche quando – come non si stanca di ricordare la Corte nella sua relazione – il ricorso alla secretazione è palesemente infondato e nulla ha a che fare con i presupposti di sicurezza dello Stato. Tra gli altri, il rifacimento dell’aula dei gruppi parlamentari della Camera per cui sono stati spesi 14 milioni di euro. Su alcuni appalti c’è stata guerriglia dentro e fuori la città-Stato. In particolare sulla mensa della Camera finita al centro di un contenzioso amministrativo. Il senatore Luigi Li Gotti (Idv) segnalò che la ditta Romeo era vincitrice di una causa, decisa dai giudici interni alle Camere, nonostante l’inchiesta penale allora in corso. Il sottosegretario di allora (governo Berlusconi) Elio Vito scrisse un monumento all’autodichia: quel principio di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della Camera, risponderà, gli impediva anche solo di rispondere all’interrogazione. (è qui da aggiungere il pezzo che dice peter Anche il silenzio, nella città-stato edificata sulla cosa pubblica, è d’oro.

Dalle Camere al Quirinale: l’autogoverno inviolabile degli organi costituzionali

I giudici non entrano, indagati e condannati non escono. Così l’autodichia ha prodotto l’impunità al potere e il balletto sulla decadenza di Berlusconi che tiene in stallo il governo. E senza che sia previsto dalla Carta, il principio di autonomia è calato dentro i "parlamentini", regalandoci scandali e ruberie in tutta Italia

di | 22 novembre 2013 da Il fatto Quotidiano
 

Camera
“Le Camere si autogovernano, si autogestiscono al di fuori dei controlli della legge. Né la Guardia di finanza, né la Corte dei Conti, né gli ispettori possono entrare a controllare ciò che accade”, denuncia Irene Testa, coautrice di “Parlamento zona franca”. I presidenti di Camera e Senato, tra le altre cose, sono anche i dominus dell’accesso per motivi penali. Il 25 settembre 2012, quando viene arrestato il direttore dell’ufficio postale del Senato, Renato Schifani, in qualità di presidente dovette fare un comunicato stampa in cui precipitosamente assicurava la “piena disponibilità a collaborare all’interno di Palazzo Madama”. Perché, a rigor di regolamento, se i finanzieri avessero voluto fare un controllo con cani antidroga avrebbero dovuto chiedere preventivamente una liberatoria. Anche questo è autodichia.
Al fondo c’è ancora quel principio-feticcio di una cittadella che si è resa inviolabile dall’esterno, con Parlamento e organi costituzionali che continuano ad avocare a sé il potere di disciplinare, con propria regolamentazione, tutta l’attività che si svolge nella loro sfera interna, dall’organizzazione dei lavori a quella degli uffici e dei servizi, alla scelta ed alla nomina dei dipendenti, alla determinazione ed alla gestione della dotazione, alla potestà di giudicare le controversie insorgenti con il proprio personale. E massimamente sui propri membri, deputati e senatori. Il risultato finale, comunque la si guardi, è paradossale: proprio nel luogo dove avviene il processo di formazione delle leggi, la legge non può entrare.
Craxi, Lunardi, Matteoli, Calderoli, Cosentino. E’ lungo l’elenco dei “salvati” dal carcere perché inquilini, tutti, della città-stato nella Repubblica. Il loro scudo è l’insindacabilità nel giudizio sull’ammissibilità e la permanenza che la Costituzione prevede come garanzia di autonomia e indipendenza da altri poteri (leggi magistratura). Nella pratica però i partiti hanno utilizzato il principio dell’autodichia come merce di scambio per altre poste. “Anche la vicenda della decadenza di Berlusconi – spiega il costituzionalista Andrea Morrone – discende questo principio, laddove la Costituzione (art. 66) assegna a ciascuna camera il giudizio dei titoli ammissione dei suoi componenti e delle sopraggiunte cause di ineleggibilità e incompatibilità. Solo un eletto può decidere della decadenza di un altro. Bisognerebbe fare come in altri paesi – insiste Morrone – che hanno modificato questi aspetti dell’ordinamento, come la Germania o la Spagna, dove il giudizio sugli eletti è rimesso a un organo terzo come la Corte Costituzionale. Sul caso Berlusconi, per dire, la questione sarebbe già nelle mani della Corte, che avrebbe ormai deciso e oggi avremmo la soluzione a questo nodo che impegna da mesi gran parte della vita politica del nostro Paese”.
Ma l’autodichia, si diceva, è diventato presupposto per l’impunità dei singoli o per compromessi tra i partiti su altre poste. Si ricorderà, tra i tanti esempi, il braccio di ferro con sgambetto sul caso di Nicola Cosentino, il coordinatore del Pdl in Campania. Il 10 gennaio 2012 la Lega decide che il voto in giunta è un occasione d’oro per mettere in difficoltà gli alleati del governo Monti, Pd e Pdl. Tre giorni di suspense, poi segue il voto segreto in aula che ribalta la decisione per 11 “no”. Sulla testa di Cosentino, allora, si era giocata una partita politica che come esito finale ha consentito a un indagato per associazione mafiosa di evitare il carcere. Lo stesso copione, in scala maggiore, si sta ripetendo con la decadenza di Berlusconi che incrocia e ipoteca da mesi il destino del governo Letta. Potere dell’autodichia.
La stessa legge Severino, a ben vedere, si è dovuta piegare alle sovrane leggi della zona franca: per i componenti delle assemblee elettive locali la legge 235/2012 prevede la sospensione/decadenza automatica, con una semplice comunicazione delle questure; non per il parlamentare e il consigliere regionale, del loro destino possono decidere solo i “pari” e non altri. Il senso autentico dell’autodichia e quello deteriore, praticato fuori dal dettato costituzionale, s’incrociano e si confondono impedendo ogni ipotesi di rimedio normativo e favorendo il contagio. “Finché le immunità parlamentari verranno impropriamente invocate a tutela di quegli ambiti che esulano dalla funzione tipica delle Camere e che sono invece propri di qualsiasi altro organo o pubblica amministrazione, il Parlamento continuerà ad essere una zona franca sottratta alla grande regola dello Stato di diritto”, spiega ancora la radicale Testa. Che incalza così il Parlamento a trovare il coraggio per abolirla: “L’autodichia che sottrae le amministrazioni degli organi costituzionali alla legge ordinaria è frutto di un’interpretazione, un arbitrio dal quale si può tornare indietro senza violare l’articolo 66 della costituzione”. Ma questa battaglia non sembra destinata a fare breccia nei cuori parlamentari. Anche perché la “zona franca” si è allargata ed estesa ad altri ambiti, come dimostrano gli scandali e le inchieste sui “parlamentini”.
Nei consigli regionali l’autodichia c’è arrivata di fatto: i gruppi decidono a piacere di aumentarsi fondi e prebende, di rendicontare o meno le spese, di ammettere quello che vogliono a rimborso. E la Corte dei Conti non ha potuto metterci becco. Ci sono 20 consigli regionali sotto inchiesta per questo. Il principio ritorna poi, sotto altre forme, nella sanatoria che il governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani ha recentemente suggerito per escludere i consigli regionali dall’assoggettabilità dei magistrati contabili introdotta dal governo Monti. Perché gli autodidatti dell’autodichia, ormai, han fatto scuola.

sabato 9 novembre 2013

ISTITUZIONI CELATE. IRENE TESTA CI SPIEGA PERCHÉ LA CORTE DEI CONTI NON PUÒ METTERE IL NASO NELLE SPESE DEI GRUPPI CONSILIARI IN REGION

del 09/11/2013 da WWW.SARDEGNALIVE.NET

di Roberto Tangianu

All'indomani degli arresti che vedono coinvolti esponenti del Consiglio regionale sardo per le spese fuori controllo del gruppo consiliare, Irene Testa, Radicale sarda da anni stabilitasi a Roma, ha recentemente ha approfondito alcune dinamiche politiche, fino a denunciare, in un libro di cui è coautrice - "Parlamento Zona Franca. Le camere e lo scudo dell'autodichia" - quello che lei definisce un sistema di protezioni istituzionali che garantisce uno scudo impenetrabile agli organi di controllo della giustizia amministrativa nei diversi settori della politica.

Irene Testa, può dirci in che cosa la sua attività a Roma può essere un contributo alla gestione della cosa pubblica nella nostra Regione?
Il nostro è un partito che la scorsa legislatura ha avuto una forte proiezione istituzionale, che mi ha consentito - collaborando con Rita Bernardini, l'avvocato Gerardi e altri - di cogliere alcune falle nel regime di controllo sulle spese degli organismi rappresentativi. Per esempio, è nostro l'emendamento 1.24 con cui si chiese di sopprimere il divieto per la Corte dei Conti di visionare i rendiconti delle spese dei consigli regionali. Ora Monti ha introdotto, dopo lo scandalo Fiorito in regione Lazio, un controllo sui gruppi consiliari, ma il Consiglio regionale in sé resta ancora senza controllo contabile. Diciamo che se i gruppi consiliari si mettono d'accordo nel moltiplicare i loro fondi, non ci può essere comunque un controllo a valle della Corte sul consuntivo del Consiglio.

Ma come, un partito come il vostro, da sempre minoranza, invece di cogliere nella carica elettiva un'opportunità anche a dispetto delle spese, si dedica a controllarle? Non crede che sia anomalo che, ad invocare le spese libere come costo della democrazia, siano oggi soprattutto i partiti maggiori?
Il fatto è che lo strumento delle maggioranze per finanziarsi, in passato, erano le cariche di governo, mentre alle minoranze erano lasciate le briciole con le spese parlamentari. Ora invece l'Esecutivo soffre di stringenti vincoli di fonte europea, e la tensione autofinanziatoria dei partiti si scarica sulle strutture organizzative delle assemblee elettive: il Parlamento a Roma, i Consigli regionali altrove. Abbiamo visto in pochi anni il consiglio regionale del Lazio decuplicare le spese per i gruppi, con decisioni assunte all'unanimità nel chiuso di un Ufficio di Presidenza dal quale noi Radicali eravamo esclusi. L'alibi dei costi necessari per la politica è stato invocato in modo bipartisan, da eletti che non hanno molto altro da fare, visto che oramai si vota per vincolo di obbedienza verso l'esecutivo senza neppure leggere le leggi sottoposte al consiglio o alla camera.

E allora voi...?
Noi siamo sempre stati perché la competizione elettorale fosse genuina e non alterata dal peso dei soldi. Se poi lo spreco è direttamente funzionale alla tasca del consigliere regionale, invece che per il partito, questa per noi è un'aggravante. In ogni caso, la scena sconfortante dell'ingresso della Guardia di Finanza nelle sedi dei consigli regionali è la prova di un fallimento della democrazia.

Ci dica la verità, quella scena a Roma non l'ha mai potuta vedere...
Li' il problema è più grave, perché dietro l'immunità di sede e l'autodichia si cela un meccanismo ancor più diabolico, che tutela le Camere e gli altri organi costituzionali ben oltre il profilo contabile.  Ma finché siamo stati rappresentati in Parlamento non abbiamo avuto timori reverenziali: Emma Bonino ha guidato il voto contrario, sulla decisione del Consiglio di Presidenza del Senato di vietare l'accesso dell'ispettore del lavoro ai (pochi) contratti dei portaborse; Rita Bernardini ha proposto il disegno di legge soppressivo dell'autodichia, che la Cassazione ha utilizzato per portare la questione alla Corte costituzionale, che deciderà il prossimo 11 febbraio; io stessa, con Alessandro Gerardi, ho raggruppato tutte le iniziative in tal senso intraprese negli anni, facendone il plot di un libro.

Parlamento zona franca, che ha pubblicato Rubbettino...
Ho scelto di far luce sul groviglio di norme e di interessi, che si avviluppa intorno alla sottrazione delle Camere dalla supremazia della legge (del lavoro e degli appalti). L'unicità del nostro sistema, oramai abbandonato in tutto il mondo, si fonda su un dogma ripetuto nei decenni.

Doveva arrivare una seguace di Marco Pannella per cercare di scardinarlo.
Le elezioni regionali in Basilicata ora, dove ci presentiamo potendo utilizzare nuovamente il simbolo della Rosa nel Pugno, ci offrono una prova d'appello, in cui siano gli elettori a fare pulizia. Non per rifiutare in toto la politica, ma per sostituirne una buona a quella cattiva che s'è affermata finora. I Radicali possono garantire di avere la competenza per avanzare questa proposta: il Capo dello Stato ha scelto una nostra esponente per il posto di vertice nel Ministero che ci rappresenta nel mondo. Le burocrazie amministrative si possono utilizzare, conoscendone i meccanismi come oramai (tra DAP, carceri, Ministeri, Camere) li abbiamo imparati a conoscere noi Radicali: noi abbiamo dimostrato che possiamo fare del bene al Paese non sfasciando il settore pubblico, ma indossandolo come la mano indossa un guanto. Chiediamo agli elettori di darci la forza per poterlo continuare a fare oggi e in futuro dove ci presenteremo.


venerdì 8 novembre 2013

MONTECITORIO//RADICALI. ZAMPETTI, MODERNO ZAR SENZA SANGUE BLU.


Dichiarazione dell’avv. Alessandro Gerardi, dirigente radicale, coautore con Irene Testa del libro “Parlamento Zona Franca”

E’ davvero sconcertante che i parlamentari del PD, del PDL, della Lega e di SEL abbiano respinto l’ordine del giorno con il quale i deputati del M5S intendevano reintrodurre il limite di mandato di sette anni per la nomina del Segretario Generale della Camera dei Deputati, ruolo ricoperto da ben 14 anni dal dott. Ugo Zampetti. Già nella scorsa legislatura la deputata radicale Rita Bernardini presentò un ordine del giorno per rimuovere l’attuale Segretario Generale, ritenendo inaccettabile che la funzione apicale di una istituzione così delicata fosse concentrata nella stessa persona senza alcun limite temporale, ma anche in quella circostanza l’assemblea confermò Zampetti con un plebiscito. E furono sempre i deputati radicali a battersi per la modifica dell’articolo 7 del Regolamento dei Servizi e del Personale con il quale la Camera dei Deputati aveva eliminato la durata massima in carica del Segretario Generale introducendo pure una elevatissima maggioranza qualificata (i due terzi dei componenti l’Ufficio di Presidenza) per revocarne l’incarico, a fronte della maggioranza semplice richiesta per la sua nomina. Con il voto di ieri i partiti hanno dunque voluto blindare nuovamente il ruolo di Ugo Zampetti, di colui cioè che esercita “funzioni di indirizzo, vigilanza e controllo su tutta l’attività dell’Amministrazione della Camera”, all’interno della quale continua a vigere quel reperto archeologico chiamato “autodichia”. Il potere vastissimo esercitato dal dott. Zampetti, al di fuori di ogni controllo, rende di fatto il Segretario Generale della Camera dei Deputati una delle figure più potenti della burocrazia pubblica, un sorta di moderno Zar senza sangue blu.

Intervista ad Irene Testa sull'autodichia parlamentare

http://www.radioradicale.it/scheda/395719/intervista-ad-irena-testa-sullautodichia-parlamentare

mercoledì 6 novembre 2013

SENATO/RADICALI. IL PARLAMENTO E' UNA ZONA FRANCA, ABROGARE AUTODICHIA SE SI VUOLE TRASPARENZA


Dichiarazione di Irene Testa, dirigente Radicale e coautrice con l'avvocato Alessandro Gerardi del libro 'Parlamento Zona Franca', Rubbettino

Fino a quando non si metterà mano all'autodichia parlamentare, le Camere non saranno mai trasparenti. E' impensabile che là dove neanche la Corte dei Conti può controllare ciò che avviene nell'ambito dei bilanci dei gruppi parlamentari o nell'amministrazione del lavoro, passando dalla gestione del patrimonio immobiliare alla materia appaltistica, il Parlamento continuerà a ricorrere all'alibi dell'autodichia per sottrarsi ai rigori della legge esterna; quella stessa legge, che invece vale per ogni altra pubblica amministrazione e, soprattutto, per ogni cittadino. Siamo dunque al paradosso: nel luogo dove avviene il processo di formazione delle leggi, occorre ottenere il "permesso" di venti persone (i componenti degli Uffici di Presidenza) per dare accesso alla legge nell'ambito della presunta "autonomia costituzionale" della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Finché le immunità parlamentari verranno impropriamente invocate a tutela di quegli ambiti che esulano dalla funzione tipica delle Camere e che sono invece propri di qualsiasi altro organo o pubblica amministrazione, il Parlamento continuerà ad essere una zona franca sottratta alla grande regola dello Stato di Diritto.

venerdì 1 novembre 2013

Senato/Radicali. Il Parlamento è una zona franca, abrogare autodichia se si vuole trasparenza

Dichiarazione di Irene Testa, dirigente Radicale e coautrice con l'avvocato Alessandro Gerardi del Libro Parlamento Zona Franca

Fino a quando non si metterà mano all'autodichia parlamentare, le Camere non saranno mai trasparenti. E' impensabile che là dove neanche la Corte dei Conti può controllare ciò che avviene nell'ambito dei bilanci dei gruppi parlamentari o nell'amministrazione del lavoro, passando dalla gestione del patrimonio immobiliare alla materia appaltistica, il Parlamento continuerà a ricorrere all'alibi dell'autodichia per sottrarsi ai rigori della legge esterna; quella stessa legge, che invece vale per ogni altra pubblica amministrazione e, soprattutto, per ogni cittadino.
Siamo dunque al paradosso: nel luogo dove avviene il processo di formazione delle leggi, occorre ottenere il "permesso" di venti persone (i componenti degli Uffici di Presidenza) per dare accesso alla legge nell'ambito della presunta "autonomia costituzionale" della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Finché le immunità parlamentari verranno impropriamente invocate a tutela di quegli ambiti che esulano dalla funzione tipica delle Camere e che sono invece propri di qualsiasi altro organo o pubblica amministrazione, il Parlamento continuerà ad essere una zona franca sottratta alla grande regola dello Stato di Diritto.

La Corte Costituzionale: uno scandalo nascosto

http://www.lavoce.info/la-corte-costituzionale-costi-sprechi-scandalo/

Forse il più grande scandalo della pubblica amministrazione in Italia è anche uno dei più nascosti: la Corte Costituzionale. Per ovvie ragioni, pochi hanno il coraggio di parlarne. Ma i bilanci parlano da soli: sentiamo cosa dicono
Forse il più grande scandalo della pubblica amministrazione in Italia è anche uno dei più nascosti: la Corte Costituzionale. Per ovvie ragioni, pochi hanno il coraggio di parlarne (1). Ma i bilanci parlano da soli: sentiamo cosa dicono (premessa: per motivi ignoti, la Corte Costituzionale pubblica su Internet solo i bilanci di previsione, anche per gli anni passati).
I GIUDICI ITALIANI GUADAGNANO IL TRIPLO DEI COLLEGHI STATUNITENSI….
Cominciamo dalle retribuzioni (Tabella 1). La retribuzione lorda del presidente della Corte è di 549.407 euro annui, quella dei giudici di 457.839  euro (2). La retribuzione media lorda dei 12 giudici britannici è di 217.000 euro, meno della metà. Il Canada è simile:  234.000 euro per il presidente, 217.000 per i giudici. Negli USA siamo a circa un terzodella retribuzione italiana: 173.000 euro per il presidente e 166.000 per i giudici.
Tabella 1: Un confronto internazionale delle retribuzioni dei giudici
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* Media dei 12 giudici.  Fonti: vd. nota (3).
….. E HANNO IL TELEFONO DOMESTICO PAGATO DALLO STATO
Ma la differenza fra la remunerazione dei giudici italiani e i colleghi stranieri è fortemente sottostimata. Il dato italiano non include svariati benefits in natura. Le auto blu, in primis, su cui vedi sotto. Inoltre i costi dei singoli viaggi ferroviari, aerei o su taxi  effettuati per ragioni  inerenti alla carica sono a carico della corte; ogni auto abbinata ad ogni giudice ha una  tessera viacard e il telepass; i giudici  dispongono di un cellulare e di un pc portatile i costi dell’utenza telefonica domestica sono a carico della Corte (salvo rinuncia del singolo giudice); i giudici dispongono inoltre di una foresteria, composta di uno o due  locali con annessi servizio igienico e angolo cottura,  nel Palazzo  della Consulta o nell’immobile di via della Cordonata. (4)
LA NOSTRA CORTE  COSTA IL TRIPLO DI QUELLA BRITANNICA
Ma vediamo un confronto più completo sui costi totali della Corte Costituzionale in Italia e in Gran Bretagna, riferite al 2012.
 Tabella 2: Spesa totale escluse pensioni, 2012
Schermata 2013-11-08 alle 17.52.27
*Include oneri, non include pensioni.  Dati in migliaia di Euro.
Fonte: vd. nota (5)
Escludendo le pensioni, su cui non ho i dati per la Gran Bretagna, la corte italiana (15 giudici) costa oltre tre volte quella inglese (12 giudici).
PENSIONE MEDIA DI GIUDICI E SUPERSTITI: 200.000 EURO
Ma quanto costano le pensioni alla Corte Costituzionale italiana?
Tabella 3: Le pensioni alla Corte Costituzionale, 2013
2
Fonti: vd. nota (6)
Per il 2013 la Corte Costituzionale prevede di pagare a ex giudici della CC e loro superstiti 5,8 milioni di pensioni. Al momento vi sono 20 ex giudici percettori di pensione e 9 superstiti. La pensione media è dunque esattamente di 200.000 euro all’ anno.   C’è da sorprendersi che la Consulta abbia bloccato il seppur minimo taglio alle pensioni d’ oro proposto dal governo Monti?
La spesa totale per pensioni di ex dipendenti e superstiti sarà di 13,5 milioni. Vi sono  120 ex dipendenti e 78 superstiti percettori di pensioni; la pensione media del personale in quiescenza è dunque di 68.200 Euro.
OGNI GIORNO, OGNI GIUDICE COSTA 750 EURO DI SOLE AUTO BLU
Esattamente: per ogni giudice, ogni giorno lavorativo si spendono in media 750 euro per le sole auto blu. Vediamo come si arriva a questa cifra. I giudici in carica hanno diritto un’ auto blu e due autisti; i giudici in pensione ad un’ auto blu per il primo anno di pensione (fino al settembre 2011 era per tutta la vita). La spesa totale per “Noleggio, assicurazione e parcheggio autovetture” + “Carburante per autovetture” + “Manutenzione, riparazione e accessori per autovetture”  nel 2013 sarà di 758.000  euro. Ma  questo senza calcolare la spesa per gli autisti. Assumendo prudenzialmente un costo per lo Stato di 50.000 Euro per autista, e (come confermatomi dalla Corte) due autisti per giudice, arriviamo a un totale di circa 2,25 milioni, esattamente 150.000 Euro all’ anno per giudice. Calcolando 200 giorni lavorativi all’ anno per giudice, questo significa 750 euro al giorno per giudice di sola spesa per autovetture. Probabilmente, costerebbe  meno far viaggiare i giudici in elicottero, magari chiedendo loro la gentilezza di fare un po’ di helicopter-pooling.
(1) Tra le eccezioni: Primo de Nicola: “Alla corte dei privilegi“,  L’ Espresso, 30 Aprile 2008
(2) Comunicazione email della segreteria della Corte Costituzionale all’ autore.
(3) Dati convertiti in euro usando i tassi di cambio a parità di potere d’ acquisto per il 2012. Fonti:
Italia: comunicazione personale dall’ Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, e Bilancio della Corte Costituzionale del 2012 (per il valore medio);
GB: Supreme Court Annual Report and Account, 2012-13 (pp. 90 e 91, note 6.A e 6.C);
Canada: Judges Act;
USA: Federal Judicial Center
(4) Comunicazione email dell’ Ufficio Stampa della Corte all’ autore. Per  i giudici britannici abbiamo una stima delle spese di trasporto totali: 31.122 euro, cioè 2.677 a testa all’ anno. Più 4.443 euro (370 a giudice) per altre spese. Questo dato si riferisce al 2010, ultimo anno disponibile. Si veda qui.
(5) Fonti:
Italia: Bilancio della Corte Costituzionale del 2012
GB: Supreme Court Annual Report and Account, 2012-13 (pp. 90 e 91, note 6.A , 7,  8 e 10);
(6) Fonte: Bilancio della Corte Costituzionale del 2013